CI PENSO IO
EMICRANIE/IL SUCCESSO DI UNA TERAPIA SHOCK
Mal di testa
alla prova del chip
La cefalea a grappolo è un dolore che impedisce ogni attività . E incurabile fino a ieri. Un paziente racconta come l'hi tech gli ha salvato la vita
di Carlotta Magnanini
Una vita in apnea, in attesa di un dolore che periodicamente annulla ogni programma; una malattia che nelle forme più acute è invalidante; un handicap nascosto in testa, poco visibile ma sempre presente, perché da un momento all'altro potrebbe riemergere e scatenarsi. Pierluca Tagariello dei suoi 34 anni ne ha vissuti 16 con la cefalea a grappolo (cluster headache, secondo la definizione coniata nel 1952 da Charles Kunkle). Oggi, però, Tagariello è tra i primissimi pazienti al mondo a essersene liberato per sempre, grazie a una tecnica inedita messa a punto all'Istituto Besta di Milano, che potrebbe dare nuove speranze a chi ha un calendario scandito dalla medesima sofferenza.
Direttore generale a Roma di un'importante agenzia di comunicazione, era impossibile per Tagariello abituarsi a quel mal di testa atroce che la medicina stessa gli attribuiva: la 'cefalea del manager' (o 'del suicidio' come la chiamavano anni fa gli studiosi francesi), caratteristica cioè di uno stile di vita stressante e disordinato, che colpisce soprattutto gli strati medio-alti della popolazione, con pressanti impegni professionali (per questo il rapporto maschio-femmina da 5 a 1 è passato in meno di 20 anni a 2 a 1: proprio per i ruoli di maggior responsabilità ricoperti dalle donne).
Pierluca aveva paura di programmare una vacanza o un viaggio, non sapeva se avrebbe concluso una riunione o se sarebbe stato puntuale a un appuntamento; non prendeva il sole in estate e non si concedeva neppure un bicchiere di vino per non risvegliare la crisi. Lui della cluster headache ha sperimentato ogni sfumatura: il trauma del primo episodio, l'angosciante apprensione della forma cronica, infine la drammaticità quotidiana, più e più volte al giorno. "Era come avere una spada conficcata nell'occhio per ore o essere svegliati da un martello che picchia in testa in piena notte. La mia esistenza era spaccata in due: da una parte l'attacco, dall'altra la sua attesa".
Era, appunto. Perché oggi lui ne è uscito definitivamente dopo l'intervento che nove mesi fa gli ha cambiato la vita. La sua storia a lieto fine è però costellata di blackout e cure fai-da-te, tentativi nella medicina tradizionale e svariate incursioni in quella alternativa nel corso di un lungo e improvviso calvario simile forse ad altri. "Avevo 16 anni quando è iniziato", racconta: "Ero a scuola e a un tratto un dolore lancinante ha preso a traforarmi il cranio, il viso era per metà pieno di lacrime, l'occhio sinistro iniettato di sangue, gonfio. 'Sto per morire', ho pensato". Difficile per chi non lo ha mai provato, o per chi assiste a una crisi, dare un nome, individuare un sollievo per quel trapano: "L'insegnante di filosofia ci provò con una banana: 'Tieni, c'è il potassio'. Poi ci fu la corsa in ospedale, i calmanti, le flebo. E la prima crisi passò così". Non trascorse molto tempo prima di ricevere la diagnosi: "Cefalea a grappolo, mi dissero, ma con la faccia di chi ti sta dicendo che hai un male incurabile. Subito non ci feci molto caso, perché dopo quel primo episodio tutto era tornato alla normalità . Più o meno per sei mesi, fino a quando la spada nell'occhio - nel mio caso il sinistro poiché il grappolo è sempre unilaterale - è tornata per restare una decina di giorni".
Arginare il dolore era una battaglia, una sperimentazione continua: "Interrompevo qualsiasi cosa per andare alla ricerca di un caffè, perché su consiglio dei medici avevo imparato che la caffeina, il ghiaccio e ogni sostanza vasocostrittrice poteva dare un certo sollievo". I primi tempi quella sensazione acuta, perforante, martellante si raggruppava nell'arco di circa dieci-quindici giorni due o tre volte l'anno e una volta superata "quasi me ne dimenticavo, rimandando il problema della cura al grappolo successivo, quando però era ormai troppo tardi per avere la forza di affrontarlo".
I programmi in agenda vanno regolati di conseguenza, secondo un ritmo stagionale che non lascia spazio alla libertà : "In previsione del periodo mi organizzavo sulla base di un ciclo pensando: 'Ecco che si avvicina il mese della sofferenza, che cura provo stavolta?'. Era sempre una strada diversa, un nuovo tentativo per liberarmi della bestia". Perché la bestia spinge a sperimentare le cure più bislacche: "Ho cominciato con la medicina tradizionale cinese e il Qi Gong, continuato con il reiki, tentato con l'iridologia, l'agopuntura, l'ipnosi
terapeutica, l'omeopatia e i fiori di Bach. Sono andato in India e in Thailandia alla ricerca di santoni, mi hanno consigliato di tornare esattamente da dove ero partito: dai guaritori pugliesi devoti a Padre Pio", continua Pierluca, originario di Taranto.
Poi c'è stato il periodo delle bombole: "L'ossigeno rivela una certa efficacia contro il dolore e per anni due bombole ad altezza umana, da 3 mila e 6 mila litri, sono stati i miei angeli custodi: una in casa di fianco al letto, l'altra accanto alla scrivania in ufficio. Talvolta mi davano sollievo, ma se l'ossigeno non funzionava, perdevo tempo prezioso, perché la puntura prima la fai meglio è". Per arginare il dolore si prescrivono iniezioni di sumatriptan, mentre la profilassi è a base di cortisone, verapamil o litio. Spesso chi soffre ne fa abuso: "I farmacisti erano i miei punti di riferimento, i miei alleati e i miei nemici al tempo stesso", continua: "Non mi bastavano le due dosi al giorno ordinate dal medico, così mandavo parenti o amici al posto mio per convincerli a darmi il sumatriptan senza ricetta". Una cerchia ristretta di amici in realtà , perché la cefalea mina i rapporti sociali: "Io avevo scelto di non interrompere la vita professionale per dare un senso a quella reale. Il lavoro in qualche modo dava un ritmo di normalità alla giornata, mentre nei periodi di blackout erano ammessi solo gli intimi. Per tutti gli altri era come se partissi per un viaggio lungo un mese".
Fino a quando un giorno arriva una crisi, che sembra devastante e invalidante come le altre; ma che non se ne va. Passano 15, 20 giorni, un mese, due. il grappolo resta conficcato nel cranio: è diventato cronico. "Avevo letto che nel 10 per cento dei casi c'era questo rischio, e che poteva essere un effetto boomerang del cortisone: io ne prendevo 60 milligrammi al giorno, tutti i giorni. Quando realizzi che il periodo non finisce, è lì che comincia la grande paura. La cronicità ti scardina l'equilibrio precario che ti eri creato tra un episodio e l'altro. E allora cambia tutto". Per Pierluca il cambiamento significa abbandonare le cure selvagge, i tentativi fai-da-te, per mettersi nelle mani di specialisti: "Nel 2002 mi sono rivolto all'Istituto neurologico Besta, che è un punto di riferimento per chi ha il grappolo, e così sono entrato in cura dal professor Gennaro Bussone. Con lui è iniziato un nuovo percorso, mille prove farmacologiche, cortisone, litio, anti-epilettici, che però nel mio caso non erano sufficienti". Con il corpo che cambia, che non sempre risponde ai medicinali e soprattutto che rende evidente che tutte le medicine che prendi non fanno più effetto la scelta diventa abbastanza naturale: "Farsi operare al cervello non ha nulla di eroico, è semplicemente l'ultima spiaggia".
Pierluca decide di sottoporsi alla 'deep brain stimulation', una tecnica risolutiva per la cefalea a grappolo proposta nel 2000 per la prima volta al mondo dal team di Bussone. "È un microchip piantato in profondità nel cervello e collegato a una batteria, che regola attraverso impulsi l'attività dell'ipotalamo", spiega Pierluca: "Non era una gran prospettiva, diventare una specie di uomo bionico non mi allettava. Ho passato il mese prima dell'operazione in uno stato misto tra catatonico e fatalista: un modo di gestire la paura. Ma non avevo altra scelta per uscire dal mio incubo. Fino a quando un giorno Bussone mi parla di questa forma meno invasiva dell'intervento che forse poteva dare qualche risultato, anche se sarei stato solo la terza o quarta persona al mondo. Mi dissero che se non faceva effetto avrei comunque potuto tentare l'altra strada. Insomma, non c'era un gran ottimismo, ma neanche controindicazioni".
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